25.2.25

K729

# Il Dada fu un movimento artistico che fiorì all'inizio del XX secolo dapprima in Svizzera, a Zurigo, nel famoso Cabaret Voltaire, per estendersi poi alla Francia, alla Germania ed agli Stati Uniti. Fra i suoi principali esponenti si può citare Alfred Jarry (col dramma "Ubu Roi"), Erik Satie (col balletto "Parade"), Hugo Ball (col suo "Dada Manifesto" del 1916), e inoltre Jean Arp, Marcel Duchamp, Max Ernst, Elsa von Freytag-Loringhoven, George Grosz. Sviluppato come reazione all'enorme massacro che fu la Prima Guerra Mondiale, il Dadaismo rifiutava l'estetica della società capitalista, predicando invece l'irrazionalità ed un atteggiamento anti-borghese. Se la sua parabola si concluse in pochi anni, la sua influenza si estese a movimenti ben più longevi come il Surrealismo e la Pop Art, arrivando così fino ai nostri giorni.
Per quanto possa sembrare paradossale, lo spirito iconoclastico del Dada, la volontà di rovesciare la cultura delle vette sublimi, della falsa interiorità, delle grandi parole e dell’ebbrezza del profondo venne introdotta nei paludati saloni dell'accademia tedesca proprio dall'ultimo professore da cui ci si sarebbe aspettato qualcosa del genere: Martin Heidegger, fino a quel momento noto come filosofo cattolico. Cosa può spiegare, se non un impulso dadaista, la sua volontà di abbattere due millenni di metafisica per andare verso le cose ed esperirne la meraviglia, il miracolo ? Come sta scritto nel Primo Manifesto Dadaista: "La parola Dada sta a simboleggiare il rapporto più primitivo con la realtà circostante". Ed Heidegger avrebbe potuto aggiungere: "C’è solo 'questo, questo, questo'", ovvero, in tedesco, "C’è solo 'da, da, da'".
Del resto questo grande pensatore un certo alone dadaista lo portava con sé anche nel modo di presentarsi alle lezioni, vestito come un contadino svevo o in tenuta da sci. Non gli restava che gettare anche questi effimeri costumi, e mettere in pratica quanto scrisse nella lettera a Elisabeth Blochmann del 1 maggio 1919:

La vita nuova che noi vogliamo, o che vuole in noi, ha rinunciato a essere universale, ossia inautentica e piatta. Il suo possesso è l'originarietà; non l’artificialmente costruttivo, ma l’evidenza dell’intuizione totale.

art by Andrea Pazienza

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