19.1.21

K536

# Curiosamente, o forse no, non esiste teoria politico-economica migliore di quella elaborata da Karl Marx per spiegare il crollo del “comunismo reale” in Unione Sovietica e nei paesi satelliti.
Consideriamo questo passo tratto dalla Prefazione a “Per la Critica dell'Economia Politica” (1859):

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale ... A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti ... Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale.

Il collettivismo dell'economia sovietica, che aveva per strumento i piani quinquennali, riuscì a portare un sistema produttivo sostanzialmente basato sull'agricoltura ad essere quello di una grande potenza industriale. Nel primo dopoguerra esso procedette a passo più spedito dei paesi dell'Occidente, azzoppati dalla crisi del 1929; nel secondo perfino un politico conservatore come Harold Macmillan (Primo Ministro inglese dal ‘57 al ’63) si chiese se i paesi socialisti non stessero per sopravanzare quelli capitalisti nello sviluppo economico ed anche in quello tecnologico, come sembravano confermare i successi in campo astronautico.
Tuttavia, una volta costruita l'infrastruttura di base, dagli Anni Settanta quegli stessi rapporti di produzione responsabili del miracolo economico sovietico non furono più in grado di gestire le forze produttive create al loro interno, facendo entrare l'Unione Sovietica nell'era che l'ultimo segretario del Partito Comunista, Michail Gorbacëv, chiamò “la stagnazione brezneviana”. Era tempo di una rivoluzione sociale su vasta scala, come avrebbe previsto Marx.
Se questa sia andata a favore del popolo russo, che rimase sostanzialmente estraneo, com'è sua secolare tradizione, agli sconvolgimenti al vertice, resta ancora da vedersi. Di sicuro mise una pietra tombale sull'esperienza del “comunismo reale”, che a ben vedere di marxista, nonostante la propaganda del regime, aveva poco.
Come disse Georgi Plechanov (1856-1918), eminente marxista russo, la Rivoluzione d’Ottobre poteva portare nel migliore dei casi a un “impero cinese colorato di rosso”. Guarda caso è proprio quanto abbiamo in Cina ai nostri giorni, 70 anni dopo un'altra rivoluzione comunista.

Nessun commento: