25.8.20

K494

# La rigida, anche se ipocrita, morale che vediamo applicata nella terza parte del romanzo di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto” trova un perfetto equivalente in un altro grande romanzo, stavolta ambientato nell'ambito dell'aristocrazia russa: “Anna Karenina” di Lev Tolstoj.
La conclusione tragica, col suicidio di Anna che si butta sotto il treno, è causata dalla sua espulsione dalla buona società dopo l'adulterio col conte Vronskij, espulsione decretata dalle sue compagne di genere e di rango sociale, spinte a ciò da una necessità evolutiva che affonda nella notte dei tempi, e coincide con l'inizio delle prime forme di convivenza sociale della specie umana.
Per ottenere aiuto ed assistenza dal maschio durante la lunga gravidanza e poi nei molti anni di allevamento della prole, la femmina della nostra specie ha dovuto convincerlo che i di lui sforzi andavano a favore di discendenti che perpetuavano il suo corredo genetico, non quello di qualche fortunato di passaggio. Siccome questo è sempre stato impossibile, in maniera diretta, la femmina si è trovata nella necessità di garantire in qualche modo di avere rapporti sessuali solo col padre dei suoi figli; chi infrange questa regola mette a repentaglio il benessere di tutte le donne, quindi cade sotto la loro condanna, come capita appunto ad Anna Karenina e ad Odette Swann, che dell'infrazione alla sacra norma faceva un tempo la sua professione.
Tutta le istanze morali nel rapporto fra i sessi si riducono a questo, come ha capito Schopenhauer, secondo il quale il cosiddetto ‘onore sessuale femminile’ l'hanno inventato le donne per farsi mantenere dagli uomini. Nei tempi e nelle società in cui le donne possono badare a sé stesse, non stupisce che le norme imposte da loro stesse si allentino di molto, ed esse assumano comportamenti che una volta si sarebbero definiti tipicamente maschili.
E' già capitato, ad esempio nell'antica Roma. Con grande scandalo Sallustio, parlando di Sempronia, una delle complici di Catilina nella famosa congiura, dice (1):

Tutto le fu sempre più caro del decoro e della pudicizia; non discerneresti se facesse meno conto del danaro o della reputazione; una libidine così ardente da chiedere gli uomini più spesso che esserne richiesta.

Si potrebbe poi ricordare la descrizione che Giovenale dà del comportamento dell'imperatrice Messalina (2), ma è un po' troppo ‘hard-core’ per questo blog. Posso però citare quanto scrive Velleio Patercolo (3) riguardo alla figlia di Augusto, Giulia:

Sua figlia Giulia, affatto dimentica della grandezza di suo padre e del marito (4), per dissolutezza o libidine, non lasciò nulla di intentato di quanto una donna può fare o subire di turpe; pareggiando anzi l'altezza della sua condizione con la licenza di peccare, pretendeva che fosse lecito tutto ciò che le piacesse.

Note
1. Gaio Sallustio Crispo, La congiura di Catilina, paragrafo 25.
2. Decimo Giunio Giovenale, Satire, VI, 115-133.
3. Velleio Patercolo, Storia di Roma, II, 100.
4. Ossia il futuro imperatore Tiberio.

Nessun commento: